mercoledì 14 dicembre 2011

Evanescente più della luna sui tetti. Miagola come un gatto innamorato o solo in calore.Chissà se i gatti fanno distinzioni. Ma taglia il cielo in rettangoli. Solo per rubare stelle. Una specie di gioco delle tre carte. Solo che le carte sono molte di più. Io sto a lui, come lui sta a lei, e lei sta a qualcuno atro. Potresti chiamarmi x oppure 7 volte x e 3 volte y. Questa sensazione di appartenenza sfiora ed inebria. Morde la libertà più pura e la graffia. La luna sembra un cristallo immemore, questa notte. O forse ieri. Un minuscolo segno, un taglio sottile, un alito sul collo, o un petalo smarrito. Su un cielo che nasconde il nuovo giorno come una vecchia coperta di lana. Punge ma non sai farne a meno. In cambio di un pò di calore, rubato al mondo, siamo disposti a molto. Evanescente, più di una lacrima o dell'ombra delle stelle, del lamento di un fiore. La volontà si scioglie come cioccolata sotto il palato. Densa, ustiona e lascia una bolla, come piccolo ricordo, portando via ogni remora. Mi pentirò domani. Oggi non ne ho nessuna voglia. Una piccola cicatrice sulle labbra e non sanguinano. Dove è finito il mio sangue? Mi baciavi e io assaporavo la mia nudità contro la notte. E mi sentivo il buio che mi accarezzava. Un buio rosso, fatto di un piacere, tutto mio. E tu mio schiavo, mentre ti usavo per farmi sesso. -Non chiamarlo sesso, chiamalo viaggio dentro una luna calda.- Non so se te lo dissi, ma lo pensai. Solo che tu, come altri, non hai mai letto tutta la disperazione di cui sono capace, nei miei occhi. Non devi fissarmi la pupilla, quella è uno sporco trucco. Devi osservarne il bordo perchè là, esattamente là, ci alberga uno strano contorno nero, impercettibile ma essenziale. E io sono anche quella. Evanescente, una donna fatta di un'anima evanescente, annegata dentro questa carne, che a volte si fa voglia e altre diventa mano e stringe le tue, non solo per segnarti ed inciampare nel tuo sangue, ma per farti capire che c'è un calore spontaneo che si può provare, solo aprendo i pugni e lasciandosi intrecciare, lentamente e senza forza, le dita come rami, senza tronco nè radici. E' bellissimo lasciarsi le mani sospese. Senza inzio nè fine. E questa è un parte insignificante e minuscola di me. Bivacco nel silenzio. Dietro la tenda, mentre mi osservi, come se fossi una perversa ossessione, io mi muovo e so che mi osservi. Ed è per quello che gioco con il tuo sguardo, che, come una lama, mi disegna sbagliata. E' il mio spettacolo, per te. Per te muovo le mani e le lascio danzare, per te piego la testa indietro, fino a sentire il respiro mancarmi, per te mi creo e mi distruggo e mi ricopro di tutta la fragile autenticità che un gioco può consentire. E quando chiudo la tenda, tutto questo è altrove. E io smetto di non esistere, e sono.
E' il resto che non esiste, anzi, smette di esistere.
Non riesco a raccogliere neanche uno straccio di pensiero. Sono un imbuto. Mi scorro fino in fondo ed il flusso, continuo e crudele, mi leviga l'anima. Cosa è la crudeltà se non il cordolo della cattiveria? Indefinita come la confusione, e come la conclusione di un versetto sacro, mi raccolgo ad ogni alba, perchè la notte mi ha reso fluida. E senza senso. Ed al mattino ho una gran voglia di vita. Una fame spaventosa. Sono quello che resta là, anche se per poco? Quello che passa? O quello che si perde? O forse solo il contenitore? Esiste dunque un confine così netto tra il contenitore ed il contenuto? La forma e la misura della perdita o della selezione? Solo ciò che conta resta davvero e fino alla fine. Mi viene da sorridere, oggi più che mai. E vorrei sussurrare alla mia mente, ora mentre rileggo, che non è affatto vero. Ognuno di noi ha perso dell'essenziale. Il resto scorre indolente ed imperterrito. Piena di fori, mi oltrepassa, e mi pare di capire che quei fori sono le sempre scarse conferme. E tutto il mio protendermi verso di loro. Fino a sentirmi le mani vuote. E un graffio tra le dita. Quelle ombre che si sovrappongono alle delusioni. Senza combaciare mai. Sono un mostro a metà tra donna e dubbio. E mi colo addosso. E mi colo ovunque. In questa torbida astrazione che è astensione o paura sporca e dannata. Potrei parlarvi di quello che amo, di ciò che amo, di come lo amo. E sarebbe facile e forse anche bello. O forse solo meglio. Più per me che per voi. Con il rischio sacrosanto ed irrinunciabile di essere e restare una lagna, quasi una prefica di altri tempi, anche così. Ma ho imparato a tenere al riparo ciò che davvero conta. Mi pregio e fregio di una gioia privata ed intima. Senza misura e oltre ogni misura. E soprattutto oltre questa voglia di provare a resistere. Di sperimentarmi. Al confine sincero con l'artificio più frenato. L'anima si fa nastro, a riccioli slentati. Come un pacco di natale mai spedito. E come una radice, affondo. Ruvida indifferenza, quasi fa soffocare. E non dispero, perchè ho voglia di bere dalla falda più profonda. In un momento della mia vita quasi avevo creduto di poter essere più forte di ogni alito contrario, ma poi mi sono arresa.
E ho compreso che tutti quei colori nascondono la stessa pelle.
E' quasi ridicolo spingersi verso il cielo e ridicola è la voglia di toccarlo.

Perchè alla fine il cielo ci tocca sempre lui.
Si fa forma, sagoma e confine.
Arriva ovunque.
Ed è per quello che non riusciamo mai a fonderci, pur avvicinandoci.
Abbiamo il bordo fatto di cielo.
Forza e debolezza.
Anche quando mi tieni per mano.
In fondo, è il cielo che ci protegge dall'infinito.
Come se fosse un ombrello.