mercoledì 14 dicembre 2011

Evanescente più della luna sui tetti. Miagola come un gatto innamorato o solo in calore.Chissà se i gatti fanno distinzioni. Ma taglia il cielo in rettangoli. Solo per rubare stelle. Una specie di gioco delle tre carte. Solo che le carte sono molte di più. Io sto a lui, come lui sta a lei, e lei sta a qualcuno atro. Potresti chiamarmi x oppure 7 volte x e 3 volte y. Questa sensazione di appartenenza sfiora ed inebria. Morde la libertà più pura e la graffia. La luna sembra un cristallo immemore, questa notte. O forse ieri. Un minuscolo segno, un taglio sottile, un alito sul collo, o un petalo smarrito. Su un cielo che nasconde il nuovo giorno come una vecchia coperta di lana. Punge ma non sai farne a meno. In cambio di un pò di calore, rubato al mondo, siamo disposti a molto. Evanescente, più di una lacrima o dell'ombra delle stelle, del lamento di un fiore. La volontà si scioglie come cioccolata sotto il palato. Densa, ustiona e lascia una bolla, come piccolo ricordo, portando via ogni remora. Mi pentirò domani. Oggi non ne ho nessuna voglia. Una piccola cicatrice sulle labbra e non sanguinano. Dove è finito il mio sangue? Mi baciavi e io assaporavo la mia nudità contro la notte. E mi sentivo il buio che mi accarezzava. Un buio rosso, fatto di un piacere, tutto mio. E tu mio schiavo, mentre ti usavo per farmi sesso. -Non chiamarlo sesso, chiamalo viaggio dentro una luna calda.- Non so se te lo dissi, ma lo pensai. Solo che tu, come altri, non hai mai letto tutta la disperazione di cui sono capace, nei miei occhi. Non devi fissarmi la pupilla, quella è uno sporco trucco. Devi osservarne il bordo perchè là, esattamente là, ci alberga uno strano contorno nero, impercettibile ma essenziale. E io sono anche quella. Evanescente, una donna fatta di un'anima evanescente, annegata dentro questa carne, che a volte si fa voglia e altre diventa mano e stringe le tue, non solo per segnarti ed inciampare nel tuo sangue, ma per farti capire che c'è un calore spontaneo che si può provare, solo aprendo i pugni e lasciandosi intrecciare, lentamente e senza forza, le dita come rami, senza tronco nè radici. E' bellissimo lasciarsi le mani sospese. Senza inzio nè fine. E questa è un parte insignificante e minuscola di me. Bivacco nel silenzio. Dietro la tenda, mentre mi osservi, come se fossi una perversa ossessione, io mi muovo e so che mi osservi. Ed è per quello che gioco con il tuo sguardo, che, come una lama, mi disegna sbagliata. E' il mio spettacolo, per te. Per te muovo le mani e le lascio danzare, per te piego la testa indietro, fino a sentire il respiro mancarmi, per te mi creo e mi distruggo e mi ricopro di tutta la fragile autenticità che un gioco può consentire. E quando chiudo la tenda, tutto questo è altrove. E io smetto di non esistere, e sono.
E' il resto che non esiste, anzi, smette di esistere.
Non riesco a raccogliere neanche uno straccio di pensiero. Sono un imbuto. Mi scorro fino in fondo ed il flusso, continuo e crudele, mi leviga l'anima. Cosa è la crudeltà se non il cordolo della cattiveria? Indefinita come la confusione, e come la conclusione di un versetto sacro, mi raccolgo ad ogni alba, perchè la notte mi ha reso fluida. E senza senso. Ed al mattino ho una gran voglia di vita. Una fame spaventosa. Sono quello che resta là, anche se per poco? Quello che passa? O quello che si perde? O forse solo il contenitore? Esiste dunque un confine così netto tra il contenitore ed il contenuto? La forma e la misura della perdita o della selezione? Solo ciò che conta resta davvero e fino alla fine. Mi viene da sorridere, oggi più che mai. E vorrei sussurrare alla mia mente, ora mentre rileggo, che non è affatto vero. Ognuno di noi ha perso dell'essenziale. Il resto scorre indolente ed imperterrito. Piena di fori, mi oltrepassa, e mi pare di capire che quei fori sono le sempre scarse conferme. E tutto il mio protendermi verso di loro. Fino a sentirmi le mani vuote. E un graffio tra le dita. Quelle ombre che si sovrappongono alle delusioni. Senza combaciare mai. Sono un mostro a metà tra donna e dubbio. E mi colo addosso. E mi colo ovunque. In questa torbida astrazione che è astensione o paura sporca e dannata. Potrei parlarvi di quello che amo, di ciò che amo, di come lo amo. E sarebbe facile e forse anche bello. O forse solo meglio. Più per me che per voi. Con il rischio sacrosanto ed irrinunciabile di essere e restare una lagna, quasi una prefica di altri tempi, anche così. Ma ho imparato a tenere al riparo ciò che davvero conta. Mi pregio e fregio di una gioia privata ed intima. Senza misura e oltre ogni misura. E soprattutto oltre questa voglia di provare a resistere. Di sperimentarmi. Al confine sincero con l'artificio più frenato. L'anima si fa nastro, a riccioli slentati. Come un pacco di natale mai spedito. E come una radice, affondo. Ruvida indifferenza, quasi fa soffocare. E non dispero, perchè ho voglia di bere dalla falda più profonda. In un momento della mia vita quasi avevo creduto di poter essere più forte di ogni alito contrario, ma poi mi sono arresa.
E ho compreso che tutti quei colori nascondono la stessa pelle.
E' quasi ridicolo spingersi verso il cielo e ridicola è la voglia di toccarlo.

Perchè alla fine il cielo ci tocca sempre lui.
Si fa forma, sagoma e confine.
Arriva ovunque.
Ed è per quello che non riusciamo mai a fonderci, pur avvicinandoci.
Abbiamo il bordo fatto di cielo.
Forza e debolezza.
Anche quando mi tieni per mano.
In fondo, è il cielo che ci protegge dall'infinito.
Come se fosse un ombrello.

mercoledì 30 novembre 2011

Donna intorno ad un vuoto. Questo corpo gli dà una forma, mentre urla e si dimena. E il tentativo di riempirlo frantuma ogni ostacolo e si adagia su mani e cuore, fino a spingerli ad una deriva asciutta. Fa male. Stride contro la mente. Io ho il cuore. Me lo ripeto. "..Sara qualcuno ti ha infilato il cuore dentro. Lo ha intrappolato dentro questa carne. Ma è un cuore egocentrico. Pensa, a volte, si crede luna. E altre sole".
Sarebbe bella una notte con il sole.
O meglio un sole di notte.
Ma forse il sole stesso non sarebbe d'accordo. Si sentirebbe inchiodato, quasi crocifisso. Io, ogni sera, mi frugo e mi cerco il cuore dentro. Si infila sempre nel posto sbagliato. E tocca precipitarmi in angoli angusti e strani, per recuperarlo. E per riporlo sul comodino. Lo slinguo un pò, proprio come una gatta che si pulisce il pelo, e poi lo asciugo con le lenzuola assolutamente fresche di bucato. Non si dica che ho il cuore sporco. Vorrei dire che sono un pò magica e ci soffio sopra polvere di stelle. Ma è tutto così ridicolo che non lo dirò. Anche se nel mostrarmi ridicola a volte riesco davvero bene, oltre ogni più provvida previsione. Mio malgrado, non ho stelle a disposizione e la sacrosanta verità è che se tengo le imposte aperte mi tocca a mala pena un pezzetto scomposto di cielo. Forse appena due frammenti, nel minuscolo rettangolino che riesco a scorgere, appena al confine con questo soffitto, ovverosia con il foglio su cui lascio scivolare assenza e voglia dannata e maledetta di sogni. Ma chi si accontenta gode; l'ha detto qualche sfigato e ce lo passiamo, come al telefono senza fili, voce su voce; perchè diciamolo pure, sottovoce e piano piano, come neanche ci piace, si gode davvero poco e male. Insomma gratto il soffitto, fino a graffiarlo. Come se fossi una primitiva creativa. Graffito dopo graffito. Tutti invisibili. Insieme al cuore. Il palloncino che si solleva e ci urta contro. Nella sua lotta titanica con la gravità del pensiero. Tanto sa sopportare tutto. Io non volevo un cuore sbavante. Potrei giurarlo. Da cagna, ops qualcuno dire da cagna in calore (che gente!). Non l'ho mai voluto. Mi avevano insegnato a sognare un cuore esatto. In una casina con il tetto rosso. E il fumo dal camino. Capace di stagliarsi su un cielo blu e prati verdissimi. Ma a volte invertivo il cielo con il prato e la casa diventava una barca su un mare turchino. Per il cielo verde non trovavo rimedi. Così i fiori divenivano farfalle impazzite. Adesso evito e lo piazzo bello e asciutto sul comodino. Insieme alla tisana della nonna. Non la mia, di nonna, ma di qualcun altro. La mia al massimo mi riscaldava il latte e ci immergeva del miele inspiegabilmente solido. E lui, o lei (perchè chi lo ha detto che il cuore è maschio, anzi io reclamo la assoluta femminilità del mio cuore!) si adagia sulla pila dei libri interrotti e finalmente si addormenta, contenta (è stata dichiarata femmina) di essere in pausa. Tutto questo, prima di incominciare ad attraversare la mia notte. Perchè quello che accade di notte non c'entra con l'amore. E il cuore non serve e se ne fotte. Si ama per davvero di giorno. Nella luce. E a volte, come questa, e molte altre, in verità, sono noiosa come una pentola che sbuffa. Lo dico a me stessa ma non riesco a spegnermi. E dentro cucino minestre piene di favole e catene. Sapete la mia fata preferita fuma erba e sculetta su meravigliosi tacchi?
Porca miseria, dove ho messo la dignità?
Deve essere rimasta incastrata al rocchetto del filo rosa. Quasi un orrore da ricamare. Peccato io proprio non sappia farlo. O l'hanno rubata le mie mani? E questa voce che non smette mai di pensare. Già, non parla, lei pensa. E' una voce femmina in un corpo di femmina (più o meno) dentro cui sbatte un cuore femmina (ormai è chiaro). E per non deludere nessuno oserei anche dire anche che mi perdo come una conchiglia lungo i fianchi di un monte. Solo perchè qualcuno ha spento il mare.
Avevo sbagliato a colorarlo e come sempre si è confuso tutto.
Avrebbe voluto un posto. Non sapeva quale. E neanche come. Ma uno. Ne voleva uno. Fosse anche una parola, o dentro una conchiglia. In una mollica. O dentro una musica. Dentro ad una canzone. Magari il tempo di una stagione. Non aveva il coraggio di dirlo. Ma ne voleva uno speciale. Si era data; già, non aveva dato. Si era proprio data, lei, se stessa, come se fosse una cosa vivente. Quello che poteva. Non bastava. Lei era sempre incompiuta. Un torbido anacoluto. Frange ostili di tenerezza esasperata e poi una cruda e ruvida essenzialità. Come se all'improvviso poi realizzasse che tutti quei fronzoli erano inutili e crudeli, esattamente come una agonia. E lei quel posto non lo aveva avuto. Non accadde. Accadde altro. Ma non quello. Si rifugiava dentro il tempo a venire. E rovistava futuro. Un qualunque futuro possibile. E non poteva impedirsi di osservare. - "Non andare via"- Sembrava dicesse. Forse, qualche volta lo aveva persino detto. Lo aveva sentito sanguinare tra le labbra e se lo era succhiato per la vergogna. - "Ti insegnerò ad amare"-. Si sentiva forte. Come a volte sanno sentirsi solo quelli che sono pieni zeppi di paura. Come se l'amore potesse significare la misura del loro eroismo, implume e provvisorio. Della precarietà di cui siamo fatti. E lo amava, a volte come leonessa e a volte come pulcino. Senza smettere, nè di amarlo, nè di volerlo amare. Non riusciva a negarselo quel sentimento, che, all'improvviso, di colpo, senza una ragione, contro ogni ragione, era sbocciato. Non come una rosa. Non come un frutto che piega l'albero di vita. No. Quasi cme una pianta carnivora. Fino a renderla un brandello. E a volte brandelli la mente. Avrebbe voluto accorgersi ad un tratto che qualcuno quel posto lo aveva soffiato e plasmato e coperto e nascosto agli occhi del mondo. Di di più. Di tanti mondi. Solo per lei. Le sarebbe piaciuto perdersi e accorgersi ad un tratto che da qualche parte qualcuno aveva lasciato un cantuccio. Non voleva un posto senza freddo. Ma un posto dove provarne uno immenso, un freddo da non poter resistere ed assaporare l'incanto del calore e dell'abbraccio. Non un bosco ma una foglia, in cui sapersi adagiare ed in cui potersi rifugiare. Quello forse sarebbe stato il posto. Ma non accadde. Accadde altro. ma non quello. Nessuna parola. Nessun posto. Nessun pensiero. Lei non esisteva.
Era plasmata e divorata da una tiepida e orrida inesistenza.
Quasi una occasione, senza essere caso.
Forse una radice estirpata.
Le piaceva pensare questo.
Ma quello che ci piace e ci piace pensare è una realtà segreta che si dimena al confine con i sogni.
Tutta nella mente.
Fino a non poterne più.
Fino a riaffiorare.
Incautamente.

domenica 6 novembre 2011

*

Quei fili invisibili. Una tela senza ragno. Attende di essere spezzata. Un vestito di aria. "Ho freddo. Non rubarmi la neve dagli occhi. Le ho chiesto di andare a fondo e di coprire tutto. Di cancellare. Se ti chiedo di fermarti non ascoltarmi. Ho solo parole eccessive, quasi ridicole. Sono parole buffe ed invadenti. E voglio imparare a parlare con parole invisibili. Piccoli cristalli destinati a sciogliersi e divenire goccioline". Perchè tutto quello che conta diventa sempre meno visibile. Si stinge. Si assottiglia. Si veste di oblio. La vita lo veste e lo sveste di rimembranza e di lenta distanza. E poi, come se fosse stanco, si adagia nella penombra. Deve fare posto a tutto ciò che arriva. E' per quello che scompare. Così sembra. Ma così non è. Siamo pieni di segni che ci hanno levigato l'indifferenza addosso. Si mimetizzano ed affondano nella memoria della pelle. Una memoria crudele, fatta di cicatrici silenziose, lembi su piccoli o grandi inferni, su pozzi, su frammenti di stelle. Qualcuno ha trovato il coraggio e ha cucito le due sponde. Segni che affondano e sfaldano strati, portando via con sé tutto il possibile, l'eccesso, il deserto, e ancora il troppo e il poco ed ogni ritegno. Sino a rendersi irreperibili. "Qualcuno c'era prima qua". Sembra dire il cartello, ma non lo dice. E' distratto e silenzioso. Ma se ci infili il dito, sentirai la presenza di qualcosa, che prima di diventare traccia era impronta e prima ancora altro. Era un qualcosa a forma di vita, pulsante e grondante di vita e che proprio quella vita, tutta quella vita capitatagli, ha fuso con la tua. Niente è più avido di carne e di materia e di nome, dei sentimenti. Soprattuto quando sono fragili e senza forza. Li barattiamo in emozioni e sensi, per ingannare la carne. Lei vuole tutto e tutto vuole trattenere. Sfugge, solo ciò che conta e si adagia in una profondità recondita ed immemore. In un viaggio senza ritorno. Qualcuno la chiama memoria del cuore. Altri anima. Solo perchè alla fine nessuno davvero lo sa. E poi a chi importa?
Ad alcuni oggetti ho chiesto di parlarti e non so se davvero lo abbiano fatto.
Perchè quando si parla, quello che ci turba davvero è l'attesa di una risposta.
Ed è per quello che ho smesso di chiedere.
Anche a me stessa.
"Prenditi cura di me".
Forse, ti avevo detto con parole invisibili.
Le avevo affidate ad una lama.
Ma non lo ricordo più.

domenica 30 ottobre 2011

*

Qualcuno l'ha già detto. Qualcuno l'ha già terribilmente ed occasionalmente pensato. E c'è chi l'ha provato. E' capitato. E' sempre già successo. Si è già adagiato su qualche vita e si è infilata su qualche mente. Forse fino a scorrere dentro un sangue a caso. Dentro un fiume di vita sconosciuto. Un rivolo del destino o della possibilità. Adesso io vorrei dire, e vorrei dire tutto. Nessuna confessione. Quando io dico astraggo e mi astraggo. Mi scindo dal respiro e mi osservo. E prendo a calci quello che capita, tutto quello che capita. Anche il cuore. E vorrei dire, anche se ne ho poca voglia, ma un disperato bisogno. Una corda che si allenta e si riavvolge. Vorrei lasciarmi precipitare furiosamente nelle parole. Come in una cascata. Sentirne l'urto e lo scroscio. E poi lasciarmi galleggiare nella loro corrente. Senza annegare mai. In un movimento chiamato forse comprensione, o solo circostanza. Casualità o solo causalità. Vorrei farmi frase e parola, come una carne scritta, e descrivere questa sensazione che riaffiora e poi scompare. E l'attimo dopo riuscirei forse anche a spiegarla. Tutto ha una spiegazione. Tutto è spiegabile.
Anche se la logica è una e sola, non è il solo modo di intendere.
E si dipana come una matassa slentata e prende infinite forme.
Diventa istanti, prima di raccogliere sensi e pulsioni, in una cesta.

Come fragole morenti, in quella cesta.
Nella cesta della vita.
Ma c'è quella nuvola densa e morbida che si addensa. E c'è e deve esserci intorno al cuore. Un pò per farlo tempesta e pioggia e grandine e tuono, in attesa del sereno. La morte di un delirio in attesa di quello successivo, perchè la serenità è una pausa. Quasi una tana. Ed un pò per proteggerlo, come una tenda o come una seconda pelle. Mi piace pensare di poter avere, che possa capitare, di avere le nuvole sulla pelle, sulle labbra, sulle ciglia, nelle orecchie. E' come essere un pò fatti di nuvole. Di una sostanza che ci rende quasi impercettibilmente diversi, quasi una tenerezza misteriosa e nello stesso tempo vera, forse una confidenza quasi spiccia con il cielo.
Perchè poi ho scoperto che quando le fragole muoiono non sanno sanguinare.
Hai mai infilato le mani nelle nuvole?
Io lo faccio ogni volta che mi slento.
E mi ritrovo in una strana sospensione.
In un'oscillazione che non ha tempo e ne ha troppo.
La fine e l'inizio come bordi di una stessa stoffa.
E l'ago che li penetra senza smettere di lasciare dei vuoti.
Da cui fuoriesce ancora un filo di speranza.
E' così che mi è capitato di ritrovarmi le nuvole nelle vene.
Una strana attitudine a sognare concreto ed a vivere astratto.
Ti ho lasciato un acronimo in un prato, e vi ho piegato petali, corolle e spine.
Vorrei che tu mi ricordassi così.
Si ama senza una ragione, perchè accade.
E questo è un segreto di nuvola.
E quella nuvola è l'intimità.
Il legame più prezioso tra due creature.
Qualunque forma abbia.

venerdì 21 ottobre 2011

*

C'è una strana simmetria nella crudeltà. Sembra quasi fare il verso a rintocchi di campane, pigre ma stanche. Prima di mezzogiorno e che sia troppo e troppo tardi. La misura del tempo chi la dà? La nostra giugulare che pulsa, il rincorrersi dei nostri passi o una lancetta sottile e stronza, quasi sorda, che non si sbaglia mai e non si ferma neanche a pregarla. Ci vorrebbe un martello. Come quella volta che mio nonno che non sapeva spegnere la radio la fracassò al suolo. Per un pò di silenzio meritato. Diceva che ne era valsa la pena e usciva di nascosto ad ascoltare la musica dei jukebox del lido laperladelmare. Mi sorrideva da sotto l'ombrellone con la granita alla menta e i suoi pensieri lontani. Nessuno pensa mai ai propri cari come uomini e donne: ti viene facile pensare che siano sempre stati là nella casetta dei nostri ricordi, senza alcuna vita loro. Come se fossero nati esattamente così nel posto in cui li abbiamo incontrati, nell'imprinting del nostro amore, incastrati al nostro cuore. E' assurdamente senza regole l'amore, lo senti e non riesci neanche a spiegarlo, e più è vero e più non ci sta nelle parole, le dilata come un caldo malato, come una febbre. La crudeltà invece è fedele, diversa dalla bontà, irregolare e sbadata, quasi ebbra e sbrodola. C'è un armonico orrore nella credeltà. Nei suoi morsi esatti e precisi. Quello strapparci pensieri da sotto le unghie e confondere l'urlo con il dolore. La dignità e l'orgoglio. I sentimenti con la rabbia. Di non avere più quei pensieri o solo di averli pensati. Sarà pazzia, anzi lo è. Quell'urlo muto e denso che si sostituisce al sangue e che scorre senza che tu riesca a fermarlo. Con tutta la forza di cui siamo capaci. Io non incanto più. Sono nuda. Un tempo sentii la vita prepotente e fervida. E vivida lo fui. Foglia verde e sincera. Adesso non più. Sono più nuda della terra, di una terra dove è stato raccolto tutto e c'è solo polvere. Sono un ramo senza fiori. E ho impiccato le mie povere foglioline, prima che divenissero secche. Non gli ho dato il tempo di invecchiare, di farsi lacere. Ho spezzato la lancetta, poco per volta. Un albero che muore di freddo ma non può dirlo, si lamenta solo per i suoi fiori persi. Ma non chiamatela fiducia era una serie infinita di virgulti che non divennero mai petali schiusi. Sarebbero stati una bella collana di vita, vissuta e sognata e masticata e trattenuta, sul mio seno, nei pressi del cuore.

"Piove.
La pioggia si è impossessata del cielo.
E riga l'aria.
La segna.
Striscia.
Raccoglie e ruba come una ladra".
La pioggia non mi ha mai disturbata. Sentirmela addosso. Io che in genere la sento dentro. Trovo inutile l'ombrello. Nasciamo per prendere tutta la pioggia che ci capiterà. Con il desiderio di essere asciugati. E ancora bagnati.
"Adesso ho freddo io" ... anche se ho paura di infilare le mani nella pioggia.
Piove scuro. Oggi piove denso e scuro. E la campagna schizza ciuffi impazziti di margherite selvagge nell'aria. E i papaveri con le loro corolle irriverenti e sprezzanti. E canne sul bordo della strada. Mischiate a fango. Quasi compiaciute. Il verde si ribella. Quanto amo il verde della mia terra. Il cielo è scuro e di contro si staglia quel verde smodato, indisciplinato ed incolto.
Credo che la pioggia sia un atto di amore tra cielo e terra.
Un amplesso primitivo ed intenso.
Il cielo che si scopa la terra.
E lei resta come la più autentica delle culle.
Piovimi addosso.
E ancora. . . . .
Ho paura.
E vorrei che la pioggia avvolgesse i miei polsi.
Ora sono completamente vestita di pioggia.
E nella pioggia vago.
E nella pioggia mi arresto.
"Ho sempre più freddo".

sabato 8 ottobre 2011

7

Il kamasutra delle farfalle. E quello delle giraffe. Se pensi al rito dell'amore ti stupisce accorgerti che sia davvero di tutti e che gli uomini non hanno un privilegio dell'amore. Non esiste.  Anche i topi si amano. Non ho dubbi. L'amore non conosce privilegi. Solo forme diverse e non classificabili. E non sa cosa sia l'ingiustizia. Glielo abbiamo insegnato noi. Ogni volta che lo neghiamo, che lo circumnavighiamo. Gli spezziamo addosso spigoli. E svoltiamo angoli furtivi. Quando gli saltiamo addosso. Come canguri furiosi. Si amano anche quelli.

 Fuori o dentro la sacca?

Ma lo sanno cosa è la follia? E i baci languidi degli elefanti? Esistono?

Si fanno anche loro promesse?

Non oso immaginare cosa accade quando vengono infrante.

Tutto diventa delicato e difficile. Perchè è raro. Ciò che è prezioso sfugge alle regole. E si mimetizza nella discrezione dolcissima e pura della semplicità. Mi piace pensare, invece, che il delirio sia un privilegio degli uomini. Se solo sapessero farne tesoro.

Qualcuno ha dormito nel mio letto di terra ed erba stanotte.

E mi ha rubato l'odore amaro del buio.

Adesso ho labbra livide e consunte per la nostalgia delle stelle.

Potrei ricucirci sopra una storia.

Fatta di parole bislacche.

Qualche virgola.

E una verità di tulle e mughetti.

Ed un graffio sul labbro.


Il mondo è stracolmo di amore. Un amore strano e goffo. Strabordante. Quasi irritante. Lo trovi sulle foglie e scivola  veloce come una goccia. Bagna e lascia scie. Un dito che sfiora un tronco. Amore che urla e che non riusciamo ad ascoltare. Ad afferrare. Anche solo per picchiarlo e lasciarlo andare via. Basterebbe fermarsi e ridergli incontro. E respirarlo come fumo e fiamma viva e crudele. Perchè l'amore rende sempre un pò ridicoli. Quasi pazzi. E nessuno osa dirtelo. Sussurri e rossori. Umori e lucchichii.Tutti dietro al sangue che circola furioso.

Io non oso dirtelo ma mentre ti mordo vorrei sentirti tremarmi sotto.

E vorrei nascondermi nel tuo odore.

E annodarmi al tuo gomito.

E riderti addosso.

Mentre mi parli nell'ombelico.

Nessuno gli racconta mai le favole.

E non riesce ad addormentarsi.  

Sarebbe questa la normalità che non ha nomi e regole.

Senza tempo e senza paura.

Vieni con me nella mia culla di terra muta.

Cruda e sincera.

Ho solo aria ed una ferita.

E non so nascondermi. 

Sarebbe bello cucirci le vene e lasciare le nostre ferite vicine.

Più dell'amore.

Di quello che chiamano così.

Più delle sponde.

Di un fiume segreto.

In cerca della luce.


Solo così riuscirei a non avere più paura di lasciarti andare via. 

sabato 1 ottobre 2011

6

Era primavera. Una primavera interrotta. Interrotta come un brivido. Come un respiro. Come un sorriso prima di un pianto. Come un pianto in attesa di un sorriso. Come la rabbia che si schiude nel perdono. E il dubbio nella comprensione. Senza divenire mai certezza. Come una parola che diventa carne. E la carne che si rinnega le parole. Una primavera che non crebbe e si immolò. Non fu mai estate. E il grano non maturò. E le spighe non lo graffiarono mai il cielo. E la promessa non divenne mai rorida rosa. Senza rimorsi e senza rimpianti. Per aver aver vissuto asciutto. Ed esatto. Era primavera e le calle non smisero di fiorire. E la lavanda macchiava la notte. E la fine insieguiva l'inizio, senza incontrarlo mai. C'è solo un istante in cui amore e odio si sovrappongono.
Nell'addio. Dove tutto è compiuto. E' un giro completo. E le ciglia non si mescolano più come parole e come baci. Ci hai mai pensato? Finchè si è vivi il sangue non smette mai di attraversarci. Ed è proprio quello il segreto della vita. Il lasciarsi attraversare il più possibile. Nel gioco della resistenza. Vince solo chi vive. E' bellissimo pensare che nella voglia di ricominciare ci siano infinite vite. Mi lego al mare e gli lego cuore e polsi ed ogni eccesso. Dove si annida il seme di tutti gli equilibri. Ed attendo.

5

E si forma un nodo. Tra mani e vene. E a volte cuore. E labbra. Il detto ed il non detto si sovrappongono. Sotto il palato e hanno il sapore amaro del risveglio improvviso. Del veleno dei sogni. Ancora prima di infrangersi. Più deformante del vapore di un bagno caldo. L'aurea del contatto impiccato. Lo sguardo contro il soffitto a lisciarlo. Poi ci penso. E mi pento. "Assolvimi piccolo demone bastardo". E tutto passa e ci passa. Voglio dimenticare. E lasciarmi scorrere tutto. Assolvimi, sono pentita. Quasi santa. E tu sei fatto di bene. E dovresti capire. Un tempo sono stata una donna. E prima ancora una bambina. Sono nata con tanta luna, dentro. E non riesco a liberarmene. Di tutto questo senso del dolore. E non fa male davvero. Anche se dovrebbe. Ho guardato così tanto le stelle, così tanto da renderle mute. Non è per puntualizzare, perchè adesso io vorrei solo cancellare. E cancellarmi le mani. E restare immobile ad annusare l'aria. Prima della pioggia. Ma sento che per farlo, devo urlare, devo svuotarmi da ogni ombra e dal suo suono. Quello che chiarisce e quasi fulmina è un attimo inatteso. Un rigurgito della mente. La luce vitrea della delusione. Infilza e tu devi liberartene. Come un ago intorno al cuore. Punge all'improvviso e non ti resta altro che vivere. Era tutto comprensibile. Ma hai chiuso gli occhi per correre più del vento, dimenticando che avevi la carne. Un corpo che ti impediva di non esistere. Di non lasciare segni. E di non prenderne. Si sottovaluta sempre il dolore. O lo si sopravvaluta. E si vive proteggendosi. Da fantasmi e dalle loro lenzuola. Quando ci avviciniamo a qualcuno si scontrano, in fondo, folle, di fantasmi esausti. In una battaglia senza possibilità di vittoria. Per nessuno. Senza santi o peccatori. Fantasmi che rivendicano il loro posto e si raccontano. Perchè raccontarsi è solo un modo per lasciarsi ricordare. Nel gioco perverso del non volersi lasciare dimenticare. Fantasmi che si fanno la guerra e l'amore addosso. Con le loro voci e le loro ombre. E tutta la forza di cui sono capaci. Violenta ed indifferente. E pezzi di cuore, come foglie di alberi, dai tronchi mozzi. Vorrei imparare a non avere più paura dell'oblio. E a non sentirmi indegna per aver amato troppo o poco. A smettere di toccarmi il cuore. A restare in superficie. E ad accarezzarmi le mani. E' quello che mi fa tornare indietro e tentare di dare la forma giusta al mio cuore. Senza riuscire ad andare oltre. Un ponte o un saltello. O solo il fiume del ricordo. E si forma un nodo. Vorrei sapervi dire quanto fa male. Nè donna nè bambina, nè demone nè angelo. Solo un nodo teneramente e ferocemente supplice.

4

Il poco e il tanto. Senza misura. La misura è nel respiro. Ascoltala. Si sta infiltrando nell'aria. Riesce quasi a dare la forma. Calibra e regola ma poi si ribella e ribalta e sminuzza e stingue ogni fame imprecisa e bugiarda. Quanto bisogno c'era nella mia voce? Quanti spigoli e brividi si sono nascosti nelle parole? Ho sempre pensato che di fronte a qualcosa di speciale non avrei dovuto opporre resistenza. E di non dover fingere. Ho smesso di dare il mio cuore in pasto alla mia mente. Ma non riesco a far smettere al mio cuore di sbranarmi la mente. Ferita da morsi e da quel maledetto bisogno. Azzanna. La cattiva ragazza mi dondola sulla gola. La sento oscillare sui tacchi e taglia l'aria con la sua calza magliata. Mi annusa il collo, mentre i suoi fianchi giocano con il buio. Prima di precipitarmi tra le labbra. Sedici respiri concentrici. E un soffio di vento. Per esplodere in una primavera, sguaiata e selvaggia, tra petali e polvere tra le ciglia. Lacrime rinnegate. Divinità soffuse e legate ad uno stelo. Il mio cuore è una stadera inesatta ed affamata. Disubbidisce e frantuma. E mi sorride. Mentre i miei occhi affondavano in una notte sincera. Profonda come il mare nei sogni. Forse come dentro un pozzo. O forse sotto strati di sonno. O dentro un incubo soffuso di malinconia. Quella che ha fatto sette giri intorno alla mia caviglia. Pane e acqua nella mia prigione. Una gabbia di nuvole. Le mani a coppa. Una ciotola di carne tremula. Non so pregare. So solo amare. Cercare di varcare lo strato di ogni apparenza. Solo amare, perchè è quello il contorno del mondo. La forza di un bene che non luccica quasi mai. Spiare ed essere spiati è solo un riflesso dello stesso occhio. Spesso il mio modo di voler bene si è deformato perchè è scivolato dentro specchi. E non ascoltava il mio urlo rifiutandosi di tornarmi tra le vene. Credo che nulla sia più triste che gioire della sofferenza, propria o altrui, come su un'altra sponda, richiede un vuoto speciale, una orrida abitudine alla sofferenza. Io non mi nego al mio urlo. Anche quando è silenzioso.
E' quello che non mi rende distante, sempre abbracciata alla stessa onda e che mi consente di continuare a voler bene. A modo mio. E' più facile affidare la nostra verità a sconosciuti.
Perchè dimenticarsi un pò di noi riesce quasi a renderci puri.

3

Non è sabbia. Forse è neve. E ci provi a toccarla. Senti che devi fermarla. Schiacchiare l'attimo tra l'indice ed il pollice. Non sono libera. La libertà vera è nell'amore. E io non so amare. Coltivo l'amore come una pianta in serra e ne dose la misura. Non so amare. Non ci riesco. Sono più imperfetta di un papavero in un campo. Con la sua corolla boccheggiante. Attenta ad estirpare ogni paura come se fosse erba infestante. Non voglio avere paura. E aprire indice e pollice e lasciare volare via quella polvere. Non è sabbia. Neanche dolore. E' solo la ricerca di quella sofferenza. Come se fosse una culla. E strofinarsi l'attesa come una colata calda. Io mi ricordo. Io guardavo lui. E lui guardava lei. Era tanto tempo fa. E mi torna. Addosso. Più forte di un ricordo. E non sapevo gridare. Spingevo le labbra contro il vetro e lo imbrattavo di aloni imperfetti. Come cerchi smunti. E mi condannavo e mi assolvevo per peccati che non avevo fatto. Senza perdonarmi mai. Solo perchè non sapevo condannare gli altri. Perchè una ferita non curata diviene un immenso pozzo. Un occhio segreto che si spalanca nel buio della notte. Se solo smettessimo di ritenerci indispensabili.Siamo puntini con il cuore al centro. Mollichine. Senza fila. In corsa verso una destinazione a cui non sappiamo dare nome. Ti assale quella voglia di andare più veloce delle parole e mentre ancora stai dicendo sei altrove. In un non pensiero imprevedibile. Come una sputanuvole. Strani aloni. Assedi della realtà. Quella della mente. La più difficile da far capire. E da strapparsi dalla mente. Una pellicola sottile. Umida come il vetro d'inverno. Dove potevo disegnare i miei girasoli gocciolanti. Aloni e lividi. Ogni volta che ti appoggi. Immoli la tua ingenuità in uno spigolo. E sei un pò di meno. O un pò di più. Neanche lo sai. Malefica opacità. La nebbia dell'anima. Anche le perle lasciano graffi. E ritracciarneil percorso ancora di più. Oggi vorrei una consistenza fragile. Forse unil percorso ancora di più. Oggi vorrei una consistenza fragile. Forse un abbraccio. O forse un sogno. Dove sono le tue braccia? La cappa della favola. La mappa del tesoro. Il tetto di un inferno rosso e tiepido. Dove ti scotti la mente. Ma il corpo resta integro. Quello che non sopporto sono le tracce. Le scie di cui mi riempio. Le baratto in giudizi. Approssimati. Per un frammento di redenzione. C'era una soffitta. Ed una gatta. Sola. In attesa di una magia. Lei sapeva che annusarsi è un atto di amore. Strofinarsi il pelo è già riconoscersi. Lasciarsi contaminare. Per ritrovarsi. O ritrovare solo un pezzo. Quasi un ricordo.E' l'inizio di uno sfiorarsi senza regole. Nella tela del ragno, io danzo. Attenta a non spezzarla.Tela invisibile e crudele.Donami parole crude. Più crude del sangue che mi sta scorrendo sotto. Non puoi vederlo ma se mi appoggi le mani sul cuore puoi sentirne tutta la forza. Parole capaci di infrangere il velo.Sono una gatta prigioniera in una soffitta. A caccia di calore. E neanche lo conosco il freddo. So che esiste. La paura impicca la conoscenza e dona un caldo asfittico. E' facile confondere le lettere d'amore da quelle per l'amore. Sono nidi di parole. In attesa della musica. Vorrei amarti come un'aria della Traviata. Ed essere amata come tozzo di pane caldo. Essere la provocazione sulla pelle che non resiste. E la materia fatta diventare la perfezione capace di errare. Di perdonare. Di chiedere scusa. Ecco le parole sono l'inchiostro di questa mente. Sono le unghie di questa gatta. E poi vorrei smettere di detestare mentre sto ancora amando.