mercoledì 30 novembre 2011

Donna intorno ad un vuoto. Questo corpo gli dà una forma, mentre urla e si dimena. E il tentativo di riempirlo frantuma ogni ostacolo e si adagia su mani e cuore, fino a spingerli ad una deriva asciutta. Fa male. Stride contro la mente. Io ho il cuore. Me lo ripeto. "..Sara qualcuno ti ha infilato il cuore dentro. Lo ha intrappolato dentro questa carne. Ma è un cuore egocentrico. Pensa, a volte, si crede luna. E altre sole".
Sarebbe bella una notte con il sole.
O meglio un sole di notte.
Ma forse il sole stesso non sarebbe d'accordo. Si sentirebbe inchiodato, quasi crocifisso. Io, ogni sera, mi frugo e mi cerco il cuore dentro. Si infila sempre nel posto sbagliato. E tocca precipitarmi in angoli angusti e strani, per recuperarlo. E per riporlo sul comodino. Lo slinguo un pò, proprio come una gatta che si pulisce il pelo, e poi lo asciugo con le lenzuola assolutamente fresche di bucato. Non si dica che ho il cuore sporco. Vorrei dire che sono un pò magica e ci soffio sopra polvere di stelle. Ma è tutto così ridicolo che non lo dirò. Anche se nel mostrarmi ridicola a volte riesco davvero bene, oltre ogni più provvida previsione. Mio malgrado, non ho stelle a disposizione e la sacrosanta verità è che se tengo le imposte aperte mi tocca a mala pena un pezzetto scomposto di cielo. Forse appena due frammenti, nel minuscolo rettangolino che riesco a scorgere, appena al confine con questo soffitto, ovverosia con il foglio su cui lascio scivolare assenza e voglia dannata e maledetta di sogni. Ma chi si accontenta gode; l'ha detto qualche sfigato e ce lo passiamo, come al telefono senza fili, voce su voce; perchè diciamolo pure, sottovoce e piano piano, come neanche ci piace, si gode davvero poco e male. Insomma gratto il soffitto, fino a graffiarlo. Come se fossi una primitiva creativa. Graffito dopo graffito. Tutti invisibili. Insieme al cuore. Il palloncino che si solleva e ci urta contro. Nella sua lotta titanica con la gravità del pensiero. Tanto sa sopportare tutto. Io non volevo un cuore sbavante. Potrei giurarlo. Da cagna, ops qualcuno dire da cagna in calore (che gente!). Non l'ho mai voluto. Mi avevano insegnato a sognare un cuore esatto. In una casina con il tetto rosso. E il fumo dal camino. Capace di stagliarsi su un cielo blu e prati verdissimi. Ma a volte invertivo il cielo con il prato e la casa diventava una barca su un mare turchino. Per il cielo verde non trovavo rimedi. Così i fiori divenivano farfalle impazzite. Adesso evito e lo piazzo bello e asciutto sul comodino. Insieme alla tisana della nonna. Non la mia, di nonna, ma di qualcun altro. La mia al massimo mi riscaldava il latte e ci immergeva del miele inspiegabilmente solido. E lui, o lei (perchè chi lo ha detto che il cuore è maschio, anzi io reclamo la assoluta femminilità del mio cuore!) si adagia sulla pila dei libri interrotti e finalmente si addormenta, contenta (è stata dichiarata femmina) di essere in pausa. Tutto questo, prima di incominciare ad attraversare la mia notte. Perchè quello che accade di notte non c'entra con l'amore. E il cuore non serve e se ne fotte. Si ama per davvero di giorno. Nella luce. E a volte, come questa, e molte altre, in verità, sono noiosa come una pentola che sbuffa. Lo dico a me stessa ma non riesco a spegnermi. E dentro cucino minestre piene di favole e catene. Sapete la mia fata preferita fuma erba e sculetta su meravigliosi tacchi?
Porca miseria, dove ho messo la dignità?
Deve essere rimasta incastrata al rocchetto del filo rosa. Quasi un orrore da ricamare. Peccato io proprio non sappia farlo. O l'hanno rubata le mie mani? E questa voce che non smette mai di pensare. Già, non parla, lei pensa. E' una voce femmina in un corpo di femmina (più o meno) dentro cui sbatte un cuore femmina (ormai è chiaro). E per non deludere nessuno oserei anche dire anche che mi perdo come una conchiglia lungo i fianchi di un monte. Solo perchè qualcuno ha spento il mare.
Avevo sbagliato a colorarlo e come sempre si è confuso tutto.
Avrebbe voluto un posto. Non sapeva quale. E neanche come. Ma uno. Ne voleva uno. Fosse anche una parola, o dentro una conchiglia. In una mollica. O dentro una musica. Dentro ad una canzone. Magari il tempo di una stagione. Non aveva il coraggio di dirlo. Ma ne voleva uno speciale. Si era data; già, non aveva dato. Si era proprio data, lei, se stessa, come se fosse una cosa vivente. Quello che poteva. Non bastava. Lei era sempre incompiuta. Un torbido anacoluto. Frange ostili di tenerezza esasperata e poi una cruda e ruvida essenzialità. Come se all'improvviso poi realizzasse che tutti quei fronzoli erano inutili e crudeli, esattamente come una agonia. E lei quel posto non lo aveva avuto. Non accadde. Accadde altro. Ma non quello. Si rifugiava dentro il tempo a venire. E rovistava futuro. Un qualunque futuro possibile. E non poteva impedirsi di osservare. - "Non andare via"- Sembrava dicesse. Forse, qualche volta lo aveva persino detto. Lo aveva sentito sanguinare tra le labbra e se lo era succhiato per la vergogna. - "Ti insegnerò ad amare"-. Si sentiva forte. Come a volte sanno sentirsi solo quelli che sono pieni zeppi di paura. Come se l'amore potesse significare la misura del loro eroismo, implume e provvisorio. Della precarietà di cui siamo fatti. E lo amava, a volte come leonessa e a volte come pulcino. Senza smettere, nè di amarlo, nè di volerlo amare. Non riusciva a negarselo quel sentimento, che, all'improvviso, di colpo, senza una ragione, contro ogni ragione, era sbocciato. Non come una rosa. Non come un frutto che piega l'albero di vita. No. Quasi cme una pianta carnivora. Fino a renderla un brandello. E a volte brandelli la mente. Avrebbe voluto accorgersi ad un tratto che qualcuno quel posto lo aveva soffiato e plasmato e coperto e nascosto agli occhi del mondo. Di di più. Di tanti mondi. Solo per lei. Le sarebbe piaciuto perdersi e accorgersi ad un tratto che da qualche parte qualcuno aveva lasciato un cantuccio. Non voleva un posto senza freddo. Ma un posto dove provarne uno immenso, un freddo da non poter resistere ed assaporare l'incanto del calore e dell'abbraccio. Non un bosco ma una foglia, in cui sapersi adagiare ed in cui potersi rifugiare. Quello forse sarebbe stato il posto. Ma non accadde. Accadde altro. ma non quello. Nessuna parola. Nessun posto. Nessun pensiero. Lei non esisteva.
Era plasmata e divorata da una tiepida e orrida inesistenza.
Quasi una occasione, senza essere caso.
Forse una radice estirpata.
Le piaceva pensare questo.
Ma quello che ci piace e ci piace pensare è una realtà segreta che si dimena al confine con i sogni.
Tutta nella mente.
Fino a non poterne più.
Fino a riaffiorare.
Incautamente.

domenica 6 novembre 2011

*

Quei fili invisibili. Una tela senza ragno. Attende di essere spezzata. Un vestito di aria. "Ho freddo. Non rubarmi la neve dagli occhi. Le ho chiesto di andare a fondo e di coprire tutto. Di cancellare. Se ti chiedo di fermarti non ascoltarmi. Ho solo parole eccessive, quasi ridicole. Sono parole buffe ed invadenti. E voglio imparare a parlare con parole invisibili. Piccoli cristalli destinati a sciogliersi e divenire goccioline". Perchè tutto quello che conta diventa sempre meno visibile. Si stinge. Si assottiglia. Si veste di oblio. La vita lo veste e lo sveste di rimembranza e di lenta distanza. E poi, come se fosse stanco, si adagia nella penombra. Deve fare posto a tutto ciò che arriva. E' per quello che scompare. Così sembra. Ma così non è. Siamo pieni di segni che ci hanno levigato l'indifferenza addosso. Si mimetizzano ed affondano nella memoria della pelle. Una memoria crudele, fatta di cicatrici silenziose, lembi su piccoli o grandi inferni, su pozzi, su frammenti di stelle. Qualcuno ha trovato il coraggio e ha cucito le due sponde. Segni che affondano e sfaldano strati, portando via con sé tutto il possibile, l'eccesso, il deserto, e ancora il troppo e il poco ed ogni ritegno. Sino a rendersi irreperibili. "Qualcuno c'era prima qua". Sembra dire il cartello, ma non lo dice. E' distratto e silenzioso. Ma se ci infili il dito, sentirai la presenza di qualcosa, che prima di diventare traccia era impronta e prima ancora altro. Era un qualcosa a forma di vita, pulsante e grondante di vita e che proprio quella vita, tutta quella vita capitatagli, ha fuso con la tua. Niente è più avido di carne e di materia e di nome, dei sentimenti. Soprattuto quando sono fragili e senza forza. Li barattiamo in emozioni e sensi, per ingannare la carne. Lei vuole tutto e tutto vuole trattenere. Sfugge, solo ciò che conta e si adagia in una profondità recondita ed immemore. In un viaggio senza ritorno. Qualcuno la chiama memoria del cuore. Altri anima. Solo perchè alla fine nessuno davvero lo sa. E poi a chi importa?
Ad alcuni oggetti ho chiesto di parlarti e non so se davvero lo abbiano fatto.
Perchè quando si parla, quello che ci turba davvero è l'attesa di una risposta.
Ed è per quello che ho smesso di chiedere.
Anche a me stessa.
"Prenditi cura di me".
Forse, ti avevo detto con parole invisibili.
Le avevo affidate ad una lama.
Ma non lo ricordo più.