mercoledì 11 gennaio 2012

Non è più notte. All'improvviso non è più così incredibilmente notte. L'alba risucchia le stelle e si condensa sul mio vetro. Quasi al confine placido dei miei occhi. Mentre una goccia si rifugia nella terra. Affonda senza pietà e senza ritorno.
Per aspera ad astra.
La mia insegnante occhialuta non mi sorride neanche più. Nè io a lei. Annuisce. E' tardi. Ma io lo sapevo già. Non le posso negare l'illusione di avercelo insegnato. Una specie di approfondimento. La ragazza è metodica. Dovrebbe studiare lettere antiche.
Ma lei voleva giocare con i numeri.
Prima ancora che con la vita.
E mi lascio guardare dal giorno che avanza. Nel guscio di una lumaca che striscia la terra umida e timida. Quasi come quando ti gemevo sul collo. Più egocentrica di una rosa e della sua corolla. Sul bordo dei suoi petali poche convinzioni. E il mondo tra le cosce. Solo perchè questo giorno che incalza e spinge ha un peso moderato. Ed è gentile. Dammi la mano. Intreccia le tue dita alle mie. Ascolta il mio polso. E' così orgoglioso di schizzare vita. Nonostante gli avessi chiesto di essere discreto, impunemente batte. E mi gonfia le vene, come un fiume. E io il suo corso, la sua sponda e la sua riva. Ogni donna si sente così prima di godere. E il tuo sesso tra le mani, fino ai polsi.
Quanta evanescenza nel timore.
Più che nella tristezza.
E nella solitudine.
Dopo sarà ancora notte.
Come se il passato non mi appartenesse.
Alla fine è il cuore che ci concede la misura e la rilevanza delle cose.
Quello che di lui resta, nonostante l'onda madida di novità e di divenire.
Resiste solo l'amore.
Forse uno scoglio.
Qualunque nome gli sia stato dato.
Ed ogni traccia.
Forse, adesso si chiama coraggio.
Qualcuno ha osato chiamarlo così.
Ho bisogno di vestire di un senso proprio tutto.

Mancava sempre un pezzo. Molti chiamano tutto quello che accadde, e le accadde, imperfezione. Io mi limitavo a sentirlo. Forse solo ad intuirlo, lasciandolo esistere con il beneficio della distanza. Di un pallido distacco. Non lo chiamavo neanche. Non lo chiamavo proprio per questo. Era possibilità. Una fragile ed invisibile affezione alla vita. Quel non sentirsi compresi che rende tutto vagamente doloroso. Sentiva quasi una scia di incomprensione. Come se qualcuno le avesse spezzato il filo delle parole. E aveva una tela liscia su cui il tempo lasciava tracce occasionali. Come la vita che si addensa sui polpastrelli. E dentro si ammassa la tua voglia di raccontarti, questa volta senza paura, senza limiti, senza regole. Senza essere giudicata. Da sempre il silenzio le era sembrata un'arma. Per una come lei che mangiava pane e sole. Lo sbocconcellava come sfacciata prepotenza. E sorrideva al mondo. E aveva dovuto imparare. Una terribile lezione. Gli uomini spesso sono capaci di esibire una cattiveria sottile. E si era chiesta quante volte magari su quel palcoscenico ci era stata anche lei. Troppo presa ad accarezzarsi il cuore, per capire cosa succedesse attorno. Troppo intenta a raccontarsi favole, senza fine. Solo per sentirne il guizzo della dolcezza crudele. Era là che si era persa. In una dolcezza barbara e predatrice. Nella sua voglia di fidarsi. Di poterlo fare. Di cercare un equilibrio. In un girotondo in cui mancava sempre qualche mano. Le piaceva dimenticare che fosse stata divorata. E tingeva d'oblio e di delusione i pezzi mancanti. Quando qualcuno le si avvicinava, lei non chiedeva. Come chi ha pretese, pretese taglienti, che devono diventare le torri preziose, così credeva, di una principessa triste. In un mondo fatto di parole, la gelosia diventava un buco. Come se il cuore fosse di stracci. Dentro. E là urlavano tutte le mancanze di cui era fatta. Quelle che incautamente la avevano plasmata. I limiti contro cui si sfregava la sua carne e le lasciavano ferite immaginarie. Tanto più dolorose nella misura della inconsistenza di cui erano fatte. Una battaglia contro il nulla, in cui non c'era nulla per cui lottare, nulla da vincere. Solo un immenso vuoto da nutrire. Credo che chi lo abbia provato un pò sappia. Quanto siano difficili da sconfiggere i nemici immaginari. E quando pensi di essere sola e serena, finalmente nella tua vita, quasi immersa, come una radice nella terra, un soffio tra i capelli, e dita di aria, ti lasciano percepire la precarietà di cui siamo fatti.
Mangio pane e stelle.
E quella è la mia dannazione.
A volte mi piacerebbe che qualcuno inseguisse me e non le mie paure.

mercoledì 14 dicembre 2011

Evanescente più della luna sui tetti. Miagola come un gatto innamorato o solo in calore.Chissà se i gatti fanno distinzioni. Ma taglia il cielo in rettangoli. Solo per rubare stelle. Una specie di gioco delle tre carte. Solo che le carte sono molte di più. Io sto a lui, come lui sta a lei, e lei sta a qualcuno atro. Potresti chiamarmi x oppure 7 volte x e 3 volte y. Questa sensazione di appartenenza sfiora ed inebria. Morde la libertà più pura e la graffia. La luna sembra un cristallo immemore, questa notte. O forse ieri. Un minuscolo segno, un taglio sottile, un alito sul collo, o un petalo smarrito. Su un cielo che nasconde il nuovo giorno come una vecchia coperta di lana. Punge ma non sai farne a meno. In cambio di un pò di calore, rubato al mondo, siamo disposti a molto. Evanescente, più di una lacrima o dell'ombra delle stelle, del lamento di un fiore. La volontà si scioglie come cioccolata sotto il palato. Densa, ustiona e lascia una bolla, come piccolo ricordo, portando via ogni remora. Mi pentirò domani. Oggi non ne ho nessuna voglia. Una piccola cicatrice sulle labbra e non sanguinano. Dove è finito il mio sangue? Mi baciavi e io assaporavo la mia nudità contro la notte. E mi sentivo il buio che mi accarezzava. Un buio rosso, fatto di un piacere, tutto mio. E tu mio schiavo, mentre ti usavo per farmi sesso. -Non chiamarlo sesso, chiamalo viaggio dentro una luna calda.- Non so se te lo dissi, ma lo pensai. Solo che tu, come altri, non hai mai letto tutta la disperazione di cui sono capace, nei miei occhi. Non devi fissarmi la pupilla, quella è uno sporco trucco. Devi osservarne il bordo perchè là, esattamente là, ci alberga uno strano contorno nero, impercettibile ma essenziale. E io sono anche quella. Evanescente, una donna fatta di un'anima evanescente, annegata dentro questa carne, che a volte si fa voglia e altre diventa mano e stringe le tue, non solo per segnarti ed inciampare nel tuo sangue, ma per farti capire che c'è un calore spontaneo che si può provare, solo aprendo i pugni e lasciandosi intrecciare, lentamente e senza forza, le dita come rami, senza tronco nè radici. E' bellissimo lasciarsi le mani sospese. Senza inzio nè fine. E questa è un parte insignificante e minuscola di me. Bivacco nel silenzio. Dietro la tenda, mentre mi osservi, come se fossi una perversa ossessione, io mi muovo e so che mi osservi. Ed è per quello che gioco con il tuo sguardo, che, come una lama, mi disegna sbagliata. E' il mio spettacolo, per te. Per te muovo le mani e le lascio danzare, per te piego la testa indietro, fino a sentire il respiro mancarmi, per te mi creo e mi distruggo e mi ricopro di tutta la fragile autenticità che un gioco può consentire. E quando chiudo la tenda, tutto questo è altrove. E io smetto di non esistere, e sono.
E' il resto che non esiste, anzi, smette di esistere.
Non riesco a raccogliere neanche uno straccio di pensiero. Sono un imbuto. Mi scorro fino in fondo ed il flusso, continuo e crudele, mi leviga l'anima. Cosa è la crudeltà se non il cordolo della cattiveria? Indefinita come la confusione, e come la conclusione di un versetto sacro, mi raccolgo ad ogni alba, perchè la notte mi ha reso fluida. E senza senso. Ed al mattino ho una gran voglia di vita. Una fame spaventosa. Sono quello che resta là, anche se per poco? Quello che passa? O quello che si perde? O forse solo il contenitore? Esiste dunque un confine così netto tra il contenitore ed il contenuto? La forma e la misura della perdita o della selezione? Solo ciò che conta resta davvero e fino alla fine. Mi viene da sorridere, oggi più che mai. E vorrei sussurrare alla mia mente, ora mentre rileggo, che non è affatto vero. Ognuno di noi ha perso dell'essenziale. Il resto scorre indolente ed imperterrito. Piena di fori, mi oltrepassa, e mi pare di capire che quei fori sono le sempre scarse conferme. E tutto il mio protendermi verso di loro. Fino a sentirmi le mani vuote. E un graffio tra le dita. Quelle ombre che si sovrappongono alle delusioni. Senza combaciare mai. Sono un mostro a metà tra donna e dubbio. E mi colo addosso. E mi colo ovunque. In questa torbida astrazione che è astensione o paura sporca e dannata. Potrei parlarvi di quello che amo, di ciò che amo, di come lo amo. E sarebbe facile e forse anche bello. O forse solo meglio. Più per me che per voi. Con il rischio sacrosanto ed irrinunciabile di essere e restare una lagna, quasi una prefica di altri tempi, anche così. Ma ho imparato a tenere al riparo ciò che davvero conta. Mi pregio e fregio di una gioia privata ed intima. Senza misura e oltre ogni misura. E soprattutto oltre questa voglia di provare a resistere. Di sperimentarmi. Al confine sincero con l'artificio più frenato. L'anima si fa nastro, a riccioli slentati. Come un pacco di natale mai spedito. E come una radice, affondo. Ruvida indifferenza, quasi fa soffocare. E non dispero, perchè ho voglia di bere dalla falda più profonda. In un momento della mia vita quasi avevo creduto di poter essere più forte di ogni alito contrario, ma poi mi sono arresa.
E ho compreso che tutti quei colori nascondono la stessa pelle.
E' quasi ridicolo spingersi verso il cielo e ridicola è la voglia di toccarlo.

Perchè alla fine il cielo ci tocca sempre lui.
Si fa forma, sagoma e confine.
Arriva ovunque.
Ed è per quello che non riusciamo mai a fonderci, pur avvicinandoci.
Abbiamo il bordo fatto di cielo.
Forza e debolezza.
Anche quando mi tieni per mano.
In fondo, è il cielo che ci protegge dall'infinito.
Come se fosse un ombrello.

mercoledì 30 novembre 2011

Donna intorno ad un vuoto. Questo corpo gli dà una forma, mentre urla e si dimena. E il tentativo di riempirlo frantuma ogni ostacolo e si adagia su mani e cuore, fino a spingerli ad una deriva asciutta. Fa male. Stride contro la mente. Io ho il cuore. Me lo ripeto. "..Sara qualcuno ti ha infilato il cuore dentro. Lo ha intrappolato dentro questa carne. Ma è un cuore egocentrico. Pensa, a volte, si crede luna. E altre sole".
Sarebbe bella una notte con il sole.
O meglio un sole di notte.
Ma forse il sole stesso non sarebbe d'accordo. Si sentirebbe inchiodato, quasi crocifisso. Io, ogni sera, mi frugo e mi cerco il cuore dentro. Si infila sempre nel posto sbagliato. E tocca precipitarmi in angoli angusti e strani, per recuperarlo. E per riporlo sul comodino. Lo slinguo un pò, proprio come una gatta che si pulisce il pelo, e poi lo asciugo con le lenzuola assolutamente fresche di bucato. Non si dica che ho il cuore sporco. Vorrei dire che sono un pò magica e ci soffio sopra polvere di stelle. Ma è tutto così ridicolo che non lo dirò. Anche se nel mostrarmi ridicola a volte riesco davvero bene, oltre ogni più provvida previsione. Mio malgrado, non ho stelle a disposizione e la sacrosanta verità è che se tengo le imposte aperte mi tocca a mala pena un pezzetto scomposto di cielo. Forse appena due frammenti, nel minuscolo rettangolino che riesco a scorgere, appena al confine con questo soffitto, ovverosia con il foglio su cui lascio scivolare assenza e voglia dannata e maledetta di sogni. Ma chi si accontenta gode; l'ha detto qualche sfigato e ce lo passiamo, come al telefono senza fili, voce su voce; perchè diciamolo pure, sottovoce e piano piano, come neanche ci piace, si gode davvero poco e male. Insomma gratto il soffitto, fino a graffiarlo. Come se fossi una primitiva creativa. Graffito dopo graffito. Tutti invisibili. Insieme al cuore. Il palloncino che si solleva e ci urta contro. Nella sua lotta titanica con la gravità del pensiero. Tanto sa sopportare tutto. Io non volevo un cuore sbavante. Potrei giurarlo. Da cagna, ops qualcuno dire da cagna in calore (che gente!). Non l'ho mai voluto. Mi avevano insegnato a sognare un cuore esatto. In una casina con il tetto rosso. E il fumo dal camino. Capace di stagliarsi su un cielo blu e prati verdissimi. Ma a volte invertivo il cielo con il prato e la casa diventava una barca su un mare turchino. Per il cielo verde non trovavo rimedi. Così i fiori divenivano farfalle impazzite. Adesso evito e lo piazzo bello e asciutto sul comodino. Insieme alla tisana della nonna. Non la mia, di nonna, ma di qualcun altro. La mia al massimo mi riscaldava il latte e ci immergeva del miele inspiegabilmente solido. E lui, o lei (perchè chi lo ha detto che il cuore è maschio, anzi io reclamo la assoluta femminilità del mio cuore!) si adagia sulla pila dei libri interrotti e finalmente si addormenta, contenta (è stata dichiarata femmina) di essere in pausa. Tutto questo, prima di incominciare ad attraversare la mia notte. Perchè quello che accade di notte non c'entra con l'amore. E il cuore non serve e se ne fotte. Si ama per davvero di giorno. Nella luce. E a volte, come questa, e molte altre, in verità, sono noiosa come una pentola che sbuffa. Lo dico a me stessa ma non riesco a spegnermi. E dentro cucino minestre piene di favole e catene. Sapete la mia fata preferita fuma erba e sculetta su meravigliosi tacchi?
Porca miseria, dove ho messo la dignità?
Deve essere rimasta incastrata al rocchetto del filo rosa. Quasi un orrore da ricamare. Peccato io proprio non sappia farlo. O l'hanno rubata le mie mani? E questa voce che non smette mai di pensare. Già, non parla, lei pensa. E' una voce femmina in un corpo di femmina (più o meno) dentro cui sbatte un cuore femmina (ormai è chiaro). E per non deludere nessuno oserei anche dire anche che mi perdo come una conchiglia lungo i fianchi di un monte. Solo perchè qualcuno ha spento il mare.
Avevo sbagliato a colorarlo e come sempre si è confuso tutto.
Avrebbe voluto un posto. Non sapeva quale. E neanche come. Ma uno. Ne voleva uno. Fosse anche una parola, o dentro una conchiglia. In una mollica. O dentro una musica. Dentro ad una canzone. Magari il tempo di una stagione. Non aveva il coraggio di dirlo. Ma ne voleva uno speciale. Si era data; già, non aveva dato. Si era proprio data, lei, se stessa, come se fosse una cosa vivente. Quello che poteva. Non bastava. Lei era sempre incompiuta. Un torbido anacoluto. Frange ostili di tenerezza esasperata e poi una cruda e ruvida essenzialità. Come se all'improvviso poi realizzasse che tutti quei fronzoli erano inutili e crudeli, esattamente come una agonia. E lei quel posto non lo aveva avuto. Non accadde. Accadde altro. Ma non quello. Si rifugiava dentro il tempo a venire. E rovistava futuro. Un qualunque futuro possibile. E non poteva impedirsi di osservare. - "Non andare via"- Sembrava dicesse. Forse, qualche volta lo aveva persino detto. Lo aveva sentito sanguinare tra le labbra e se lo era succhiato per la vergogna. - "Ti insegnerò ad amare"-. Si sentiva forte. Come a volte sanno sentirsi solo quelli che sono pieni zeppi di paura. Come se l'amore potesse significare la misura del loro eroismo, implume e provvisorio. Della precarietà di cui siamo fatti. E lo amava, a volte come leonessa e a volte come pulcino. Senza smettere, nè di amarlo, nè di volerlo amare. Non riusciva a negarselo quel sentimento, che, all'improvviso, di colpo, senza una ragione, contro ogni ragione, era sbocciato. Non come una rosa. Non come un frutto che piega l'albero di vita. No. Quasi cme una pianta carnivora. Fino a renderla un brandello. E a volte brandelli la mente. Avrebbe voluto accorgersi ad un tratto che qualcuno quel posto lo aveva soffiato e plasmato e coperto e nascosto agli occhi del mondo. Di di più. Di tanti mondi. Solo per lei. Le sarebbe piaciuto perdersi e accorgersi ad un tratto che da qualche parte qualcuno aveva lasciato un cantuccio. Non voleva un posto senza freddo. Ma un posto dove provarne uno immenso, un freddo da non poter resistere ed assaporare l'incanto del calore e dell'abbraccio. Non un bosco ma una foglia, in cui sapersi adagiare ed in cui potersi rifugiare. Quello forse sarebbe stato il posto. Ma non accadde. Accadde altro. ma non quello. Nessuna parola. Nessun posto. Nessun pensiero. Lei non esisteva.
Era plasmata e divorata da una tiepida e orrida inesistenza.
Quasi una occasione, senza essere caso.
Forse una radice estirpata.
Le piaceva pensare questo.
Ma quello che ci piace e ci piace pensare è una realtà segreta che si dimena al confine con i sogni.
Tutta nella mente.
Fino a non poterne più.
Fino a riaffiorare.
Incautamente.

domenica 6 novembre 2011

*

Quei fili invisibili. Una tela senza ragno. Attende di essere spezzata. Un vestito di aria. "Ho freddo. Non rubarmi la neve dagli occhi. Le ho chiesto di andare a fondo e di coprire tutto. Di cancellare. Se ti chiedo di fermarti non ascoltarmi. Ho solo parole eccessive, quasi ridicole. Sono parole buffe ed invadenti. E voglio imparare a parlare con parole invisibili. Piccoli cristalli destinati a sciogliersi e divenire goccioline". Perchè tutto quello che conta diventa sempre meno visibile. Si stinge. Si assottiglia. Si veste di oblio. La vita lo veste e lo sveste di rimembranza e di lenta distanza. E poi, come se fosse stanco, si adagia nella penombra. Deve fare posto a tutto ciò che arriva. E' per quello che scompare. Così sembra. Ma così non è. Siamo pieni di segni che ci hanno levigato l'indifferenza addosso. Si mimetizzano ed affondano nella memoria della pelle. Una memoria crudele, fatta di cicatrici silenziose, lembi su piccoli o grandi inferni, su pozzi, su frammenti di stelle. Qualcuno ha trovato il coraggio e ha cucito le due sponde. Segni che affondano e sfaldano strati, portando via con sé tutto il possibile, l'eccesso, il deserto, e ancora il troppo e il poco ed ogni ritegno. Sino a rendersi irreperibili. "Qualcuno c'era prima qua". Sembra dire il cartello, ma non lo dice. E' distratto e silenzioso. Ma se ci infili il dito, sentirai la presenza di qualcosa, che prima di diventare traccia era impronta e prima ancora altro. Era un qualcosa a forma di vita, pulsante e grondante di vita e che proprio quella vita, tutta quella vita capitatagli, ha fuso con la tua. Niente è più avido di carne e di materia e di nome, dei sentimenti. Soprattuto quando sono fragili e senza forza. Li barattiamo in emozioni e sensi, per ingannare la carne. Lei vuole tutto e tutto vuole trattenere. Sfugge, solo ciò che conta e si adagia in una profondità recondita ed immemore. In un viaggio senza ritorno. Qualcuno la chiama memoria del cuore. Altri anima. Solo perchè alla fine nessuno davvero lo sa. E poi a chi importa?
Ad alcuni oggetti ho chiesto di parlarti e non so se davvero lo abbiano fatto.
Perchè quando si parla, quello che ci turba davvero è l'attesa di una risposta.
Ed è per quello che ho smesso di chiedere.
Anche a me stessa.
"Prenditi cura di me".
Forse, ti avevo detto con parole invisibili.
Le avevo affidate ad una lama.
Ma non lo ricordo più.

domenica 30 ottobre 2011

*

Qualcuno l'ha già detto. Qualcuno l'ha già terribilmente ed occasionalmente pensato. E c'è chi l'ha provato. E' capitato. E' sempre già successo. Si è già adagiato su qualche vita e si è infilata su qualche mente. Forse fino a scorrere dentro un sangue a caso. Dentro un fiume di vita sconosciuto. Un rivolo del destino o della possibilità. Adesso io vorrei dire, e vorrei dire tutto. Nessuna confessione. Quando io dico astraggo e mi astraggo. Mi scindo dal respiro e mi osservo. E prendo a calci quello che capita, tutto quello che capita. Anche il cuore. E vorrei dire, anche se ne ho poca voglia, ma un disperato bisogno. Una corda che si allenta e si riavvolge. Vorrei lasciarmi precipitare furiosamente nelle parole. Come in una cascata. Sentirne l'urto e lo scroscio. E poi lasciarmi galleggiare nella loro corrente. Senza annegare mai. In un movimento chiamato forse comprensione, o solo circostanza. Casualità o solo causalità. Vorrei farmi frase e parola, come una carne scritta, e descrivere questa sensazione che riaffiora e poi scompare. E l'attimo dopo riuscirei forse anche a spiegarla. Tutto ha una spiegazione. Tutto è spiegabile.
Anche se la logica è una e sola, non è il solo modo di intendere.
E si dipana come una matassa slentata e prende infinite forme.
Diventa istanti, prima di raccogliere sensi e pulsioni, in una cesta.

Come fragole morenti, in quella cesta.
Nella cesta della vita.
Ma c'è quella nuvola densa e morbida che si addensa. E c'è e deve esserci intorno al cuore. Un pò per farlo tempesta e pioggia e grandine e tuono, in attesa del sereno. La morte di un delirio in attesa di quello successivo, perchè la serenità è una pausa. Quasi una tana. Ed un pò per proteggerlo, come una tenda o come una seconda pelle. Mi piace pensare di poter avere, che possa capitare, di avere le nuvole sulla pelle, sulle labbra, sulle ciglia, nelle orecchie. E' come essere un pò fatti di nuvole. Di una sostanza che ci rende quasi impercettibilmente diversi, quasi una tenerezza misteriosa e nello stesso tempo vera, forse una confidenza quasi spiccia con il cielo.
Perchè poi ho scoperto che quando le fragole muoiono non sanno sanguinare.
Hai mai infilato le mani nelle nuvole?
Io lo faccio ogni volta che mi slento.
E mi ritrovo in una strana sospensione.
In un'oscillazione che non ha tempo e ne ha troppo.
La fine e l'inizio come bordi di una stessa stoffa.
E l'ago che li penetra senza smettere di lasciare dei vuoti.
Da cui fuoriesce ancora un filo di speranza.
E' così che mi è capitato di ritrovarmi le nuvole nelle vene.
Una strana attitudine a sognare concreto ed a vivere astratto.
Ti ho lasciato un acronimo in un prato, e vi ho piegato petali, corolle e spine.
Vorrei che tu mi ricordassi così.
Si ama senza una ragione, perchè accade.
E questo è un segreto di nuvola.
E quella nuvola è l'intimità.
Il legame più prezioso tra due creature.
Qualunque forma abbia.